ITALIA ZONA ROSSA: il decreto e le sue erronee applicazioni sul divieto di circolazione

La situazione per la diffusione del COVID – 19 ha imposto al paese misure drastiche al fine di tutelare la salute dei cittadini, soprattutto i soggetti deboli.

Il Governo, pertanto, con il DPCM del 9 marzo 2020 ha deciso di adottare delle misure al fine di contenere la diffusione del virus.

Se le ragioni del Decreto sono sicuramente degne di merito, sicuramente non lo è il lavoro tecnico legislativo con cui è stato redatto i documento.

Ma prima di partire dall’esame del DPCM del giorno 9 marzo 2020, dobbiamo risalire a quanto avvenuto negli ultimi giorni di febbraio che hanno portato all’istituzione della Zona Rossa in Codogno.

Con il Decreto del 1 marzo 2020 il Governo aveva imposto il DIVIETO assoluto di allontanamento dai luoghi del focolaio, nonchè il Divieto d’accesso agli stessi luogo, nonchè altre prescrizioni avente carattere cogente.

Con detto provvedimento il Governo ha adottato provvedimenti atti a far rispettare dette prescrizioni mediante l’utilizzo delle Forze dell’Ordine.

La norma in questione era chiara e non suscettibile di interpretazioni.

Con il diffondersi dell’epidemia, tuttavia, si è reso necessario intervenire emanando prima il DPCM dell’8 marzo 2020 limitato alle zone della Lombardia e alcune altre province del Veneto e della Regione dell’Emilia Romagna e, successivamente, il DPCM 9 marzo 2020 interessante tutto il territorio nazionale.

Il DPCM del 9 marzo 2020 non fa altro a che estendere a tutto il territorio nazionale il decreto precedente ma con due novità:

1. imporre il divieto assoluto di assembramenti;

2. sospensione di tutte le manifestazioni sportive, compreso il campionato di Serie A.

Occorre quindi esaminare il DPCM dell’8 marzo 2020 per capire quali sono le condotte da tenere e per comprendere se la presunta richiesta di autocertificazione sugli spostamenti sia legittima e giustificata.

L’utilizzo delle parole nel testo lascia molti dubbi e, ancora di più, lasciano dubbi le spiegazioni del Governo Italiano.

Se l’Hashtag #IoRestoaCasa è chiaro nel far comprendere la ratio del decreto, altrettanto chiare non lo sono le parole utilizzate dall’esecutivo che pongono non pochi dubbi sulla sua applicabilità.

Sotto il profilo giuridico questo decreto ha parecchie falle e le notizie di provvedimenti da parte delle forze dell’ordine che richiedono autocertificazioni fino a denunciare chi si sposta dal proprio domicilio non hanno, ad avviso di chi scrive, fondamento giuridico.

Come è noto a chi si occupa di diritto, la norma penale deve essere chiara nello stabilire quale è il comportamento doveroso da tenere.

Tale chiarezza è imposta dal principio di legalità, costituzionalmente sancito, per la norma penale.

Leggendo quindi il DPCM 8 marzo 2020, richiamato dal DPCM del giorno successivo è chiaro come manchi questa chiarezza dell’atto dell’esecutivo che, di fatto, rende impossibile l’applicazione dell’articolo 650 codice penale.

Tenendo conto il dettato dell’articolo 650 codice penale nel richiamare il provvedimento emanato per ragioni di sicurezza ed igiene deve necessariamente pretendersi che il comportamento previsto sia chiaro e non passibile di fraintendimenti.

Ora il decreto #IoRestoaCasa, a ben vedere, non vieta esplicitamente la circolazione nei territori sottoposti alla misura.

Non sfuggirà al lettore del decreto, infatti, come all’articolo 1 n. 1 lettera a) il DPCM 8 marzo 2020 utilizzi la parola “EVITARE”.

In Italiano “evitare” significa “fare a meno di… ” concetto ben diverso da “vietare” che Significa “impedire”, “inibire”, “proibire”, il che non può fare a meno che ritenere quella disposizione una mera raccomandazione.

Difatti è come se il Governo raccomandasse ai cittadini di fare a meno di spostarsi nei territori, salvo che ci siano ragioni lavorative e di necessità.

Noto al tecnico del diritto è che nell’interpretazione della legge dobbiamo dare alle parole il significato che le stesse hanno nella nostra lingua.

L’articolo 12 delle preleggi del Codice Civile è chiarissimo “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore“.

Risulta pacifico, quindi, che l’utilizzo della parola evitare è cosa ben diversa dalla parola vietare, tra l’altro chiaramente usata nel DPCM del giorno 1 marzo 2020.

Non aiuta neanche l’esaminare l’intenzione del legislatore, visto che nel decreto, quando il Governo ha voluto usare la locuzione “è vietato”, come nel caso dell’imposizione alle persone positive al covid 19 di rimanere nel proprio domicilio, lo ha fatto chiaramente.

Intenzione del legislatore che è ancora più oscura e discutibile se si esaminano le indicazioni del Governo Italiano alla pagina FAQ.

Se consideriamo il fatto che il Governo dichiara esplicitamente che “Sì, l’attività motoria all’aperto è consentita purché non in gruppo” (tale attività è anche espressamente autorizzata nel DPCM 9 marzo 2020), cosa vieta ad una persona di correre per 5/6 km, nel rispetto della normativa.

O ancora, visto che il Decreto consente lo svolgimento delle attività commerciali, non limitandosi a quelle di prima necessità, quindi, a titolo esemplificativo librerie, centri estetici, bar, ristoranti, abbigliamento, negozi di giocattoli… va da se che la circolazione per recarsi a fare acquisiti in detti negozi è consentita e, quindi, non vietata.

Parimenti non comprensibile è la chiusura dei locali adibiti alla ristorazione e dei bar alle 18.

Non si comprende quale sia il fondamento di tale previsione.

Posto che al ristoratore incombe, dalle 6 alle 18, adoperarsi perché vengano rispettare le indicazioni circa la distanza tra i tavoli e l’assembramento, non si comprende come mai tale onere non possa essere adempiuto anche la sera.

È evidente che il principio di uguaglianza viene violato perché nel decreto vengono trattate diversamente delle situazioni che diverse non sono.

Il DPCM 9 marzo 2020 e il richiamato DPCM dell’8 marzo 2020 si presentano vaghi, approssimativi, contraddittorio e inapplicabili in alcune sue previsioni soprattutto sotto il profilo della norma incriminatrice di cui all’articolo 650 codice penale.

Ne va della lesione del principio di legalità costituzionalmente garantito.

Alla luce di dette considerazioni la pretesa richiesta di autocertificazioni da parte degli organi di polizia modulo_autodichiarazione_spostamenti appare non giustificata e non supportata dalla fonte normativa.

Appare lapalissiano come stiamo assistendo ad una inadeguatezza del testo normativo.

In materia penale, infatti, deve sussistere quel requisito di tipicità che, coerentemente con il principio della riserva assoluta di legge in materia penale, richiede “una puntuale relazione di corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie reale”.

L’utilizzo della norma penale di cui all’articolo 650 codice penale, in relazione al DPCM 8 marzo 2020 come richiamato dal DPCM 9 marzo 2020, lederebbe l’art. 21 della Costituzione in quanto, anche alla luce delle spiegazioni ufficiali del Governo, non sarebbero intellegibili le condotte da tenersi.

Le competenti Procure della Repubblica, a cui sono stati deferiti cittadini per condotte che, testo alla mano, non configurano violazioni dello stesso, si troveranno quindi valutare la sussistenza di reati avendo in mano un testo ambiguo, privo di qualsiasi reale indicazione su quale sia la condotta da tenersi.

L’epilogo di detti procedimenti dovrà essere necessariamente la richiesta di archiviazione, poichè, in alternativa, sarà necessario l’intervento della Consulta volto a chiarire se e in che misura si possa applicare l’articolo 650 codice penale in relazione al DPCM del 9 marzo 2020.

Il DPCM 9 marzo 2020 mostra la sua debolezza e la sua inapplicabilità, ma, al contempo, incide pesantemente sulle vite dei cittadini che si trovano in balia delle interpretazioni degli operatori che, allo stato, sono costretti a navigare a vista in assenza di un testo chiaro.

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